Il codice del talento #3: Ignizione

Nei due articoli precedenti della serie ho parlato di mielina e profonda pratica.

Lì ho discusso degli aspetti fisiologici della trasmissione delle informazioni nel nostro corpo e degli aspetti di lavoro necessari per poter avere la speranza di riuscire a realizzare questo talento.

Oggi invece parlo della percezione, motivazione e passione.

Pensiamo ai ragazzini che arrivano alla prima lezione di una nuova materia. E gli chiedete alla fine della lezione: “Per quanto tempo pensate di applicarvi nell’imparare questa materia?” anche se non la conoscono per niente. Solitamente vi risponderanno: “Non lo so”. Ma se vi impegnate, riuscirete a tirare fuori da loro una risposta che cadrà in una delle tre categorie principali: a breve termine (non gli interessa per niente la materia ma la fa perché deve…), a medio termine (non sa ancora dire se gli piace o no), a lungo termine (la materia gli è piaciuta tantissimo e non vede l’ora di imparare).

Ecco, gli studi dimostrano che già questa prima impressione è un fattore determinante per lo sviluppo del talento. Perché quelli non interessati cominciano a studiare poco e a malavoglia, quelli medi studiano un pò di più, mentre quelli interessati raggiungono i risultati superiori anche del 400% rispetto agli altri due gruppi, a parità del tempo impartito a tutti per lo studio…

Cosa vuol dire questo? Vuol dire che le idee che uno studente porta alla prima lezione sono probabilmente molto più importanti di qualsiasi cosa un insegnante può fare, o di qualsiasi quantità di pratica che lo studente può svolgere. Si tratta solo della loro percezione di se stessi, dove lo studente porta nella sua mente l’idea di “io sarò un (inserire il mestiere che si vuole…)”. Questa prima esperienza fa partire una intensa risposta emotiva nella persona, che connette lo studente al serbatoio della motivazione, che poi si trasforma in profonda pratica per imparare. Si è trattato di una ignizione, dove capiamo che il progresso non dipende da qualche innata capacità o genetica. Si tratta solo dell’idea, visione: “Voglio essere come (inserire il nome di un personaggio famoso nel mestiere che si impara)”.

Quest’idea può arrivare (e di solito arriva) per puro caso. Ma ogni incidente ha le conseguenze, e la conseguenza di questo incidente è che lo studente inizia a studiare motivato, ed è questo che fa tutta la differenza…

Siccome la profonda pratica ha bisogno di molta energia da parte dello studente, da dove arriva questa energia? Arriva proprio da questa motivazione, passione, ignizione. Può essere anche un fattore traumatico ad accendere la scintilla, come ad esempio la perdita di una persona cara (anche genitore) nell’età dello sviluppo: pensate ad esempio ai vari Charlie Chaplin, Madonna, John Lennon, Robert Redford, Gandhi, Hitler, Isaac Newton, Nietzsche… Oppure ad esempio al fattore dell’ordine di nascita in una famiglia (quelli più piccoli devono sempre correre di più, non a caso quasi tutti i sprinter migliori sono nati tra gli ultimi nelle rispettive famiglie – vedi esempio di Usain Bolt (secondo di tre), Carl Lewis (terzo di quattro), Asafa Powell (sesto di sei)…). Oppure anche altri fattori scatenanti che non dipendono da niente di simile…

Quale è il linguaggio della ignizione?

Carol Dweck, una nota psicologa dell’Università di Stanford, ha condotto un sperimento molto semplice con i bambini di 11 anni. Alla fine del test metà dei bambini erano elogiati per la loro intelligenza “Devi essere molto intelligente per fare questo” e l’altra metà è stata elogiata per il loro sforzo “Devi aver lavorato moltissimo per raggiungere questo risultato”.

Al secondo test gli stessi bambini hanno avuto la possibilità di scegliere: test semplice o difficile. 90% di quelli elogiati per lo sforzo hanno scelto il test più difficile, mentre la maggior parte di quelli elogiati per intelligenza ha scelto quello più facile. Perché? Perché quando una persona viene elogiata per la sua intelligenza gli viene detto che così funzionano le cose: devi sembrare intelligente, non devi rischiare e fare errori…

Un terzo test era molto difficile e nessuno dei bambini è riuscito a superarlo. Ma tra i due gruppi, quelli elogiati per lo sforzo si erano concentrati a cercare soluzioni, provare strategie – il test gli piaceva. Mentre quelli del secondo gruppo hanno mollato presto e hanno detto che il test non gli piaceva – era la prova che non erano poi tanto intelligenti…

Infine, un ultimo test fatto era della stessa difficoltà come quello iniziale, semplice. Il gruppo elogiato per lo sforzo ha migliorato i risultati di 30% in media, il secondo gruppo invece, quelli elogiati per intelligenza, ha peggiorato i risultati iniziali di 20% in media.

Tutto a causa di quelle due frasi iniziali…

Ha ripetuto lo stesso test per altre 5 volte – il risultato era sempre il medesimo…

Questo cosa vuol dire? In qualsiasi lavoro, noi cerchiamo dei messaggi che ci dicono di cosa rappresenta il valore. E quando questo messaggio arriva in maniera chiara, esso può accendere la scintilla!

Quindi, il linguaggio di alta motivazione (“tu sei il migliore”) non fa scattare la scintilla. Quello che motiva è esattamente l’opposto: il linguaggio che parla della lotta, dello sforzo: “Bravo, hai lavorato durissimo” o “Buon lavoro”. Dal punto di vista della mielina, questa conclusione ha senso: riflette la realtà biologica – i circuiti del talento hanno bisogno di tempo per essere creati, e la profonda pratica richiede sforzo e lavoro passionale. E il linguaggio che enfatizza lo sforzo parla direttamente al cuore dell’esperienza di apprendimento…

Fa ignizione…

La prossima volta vedremo l’ultimo capitolo della serie: il mentoring da parte di un maestro…

Autore

Ciao, sono Dragan Bosnjak e sono qui per guidarti nella scoperta del mondo di lean thinking!

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